Saturday, January 26, 2008

Salvatore Niffoi e Redenta Tirìa

'La leggenda di Redenta Tiria' di Salvatore Niffoi è stato un piccolo caso editoriale, nel senso che quando è stato ripubblicato da Adelphi ha raccolto un discreto numero di premi e consensi di critica permettendo al suo autore di conquistarsi un certo spazio nel panorama mediatico sardo e italiano. E' stato accostato, non del tutto a torto, allo Spoon River di Edgar Lee Masters, già caro a un sardo onorario quale Fabrizio De Andrè ("dormono, dormono sulla collina...").
L'idea che me ne ero fatto prima di leggerlo, basata sulle dichiarazioni di Niffoi e su ciò che ho letto e sentito in giro, non era particolarmente lusinghiera. Dopo averlo letto correggo leggermente il tiro, e dò atto al suo autore (o almeno a chi ne ha curato l'editing) di avere saputo utilizzare in maniera efficace ed equilibrata quel particolare linguaggio ibrido che tanto va di moda negli ultimi anni. Tanto meglio, perchè più che al contenuto del libro, che non mi entusiasma ma che ha comunque un suo valore, le mie perplessità erano e sono tuttora legate proprio allo strumento linguistico scelto dall'autore. Almeno a partire da Camilleri, se non vogliamo addirittura tornare a Verga, l'uso del dialetto e dell'italiano dal forte sostrato regionale è insieme un elemento verista e un modo (ormai facile) di ottenere il consenso dei lettori. Di per sè non c'è nulla di male. Dal punto di vista personale però sono molto lontano da questo tipo di approccio, non mi ci riconosco nè come lettore nè tantomeno come autore. Ma c'è un aspetto del successo di Niffoi e degli altri sardi che battono lo stesso frequentatissimo sentiero che mi sembra ben poco lusinghiero. Al di fuori della nostra isola la percezione che si ha di questo materiale letterario è di tipo prevalentemente neocoloniale, nel senso che ciò che arriva al lettore che della cultura sarda conosce in genere soltanto un insieme di luoghi comuni non è altro che un sapore di esotismo a buon mercato. Luoghi comuni quali la fierezza degli abitanti dei villaggi o una certa rozzezza nei rapporti tra le persone, che talvolta corrispondono alla realtà (una realtà comunque ormai prossima all'estinzione), ma che riproposti da un sardo barbaricino doc si ammantano di una dignità antropologica esclusiva. Come dire: questa è la Sardegna e questo sono i sardi. Pur muovendo da un fondo di verità mi sembra riduttivo perpetuare questo modello soltanto perchè 'tira' sul mercato editoriale. Niffoi e i tanti che scrivono più o meno come lui hanno tutto il diritto di farlo, ma la mia speranza è che il peso mercantile di queste produzioni letterarie non cancelli il già esiguo spazio per chi si muove su coordinate del tutto differenti pur a partire da comuni elementi di sardità.

Vorrei citare, in conclusione, un brano tra i più riusciti del libro. Nel finale il narratore ricorda:
"La casa, il diploma, il lavoro, il pallone, la solitudine, mia madre che mi proponeva una fidanzata al giorno. - Tu sei uccello che non hai imparato a volare!- mi disse un giorno, ferendomi a morte, spogliando il mio passato con un batter d'occhi. Voleva dirmi che non avevo imparato a vivere, che le ali di carta dei libri sono fragili come quelle delle libellule, si sfarinano alla luce del sole."

Wednesday, January 16, 2008

'Novecento' di Baricco stroncato da me


Anno nuovo, post nuovi.
Quest'anno vorrei tornare a occuparmi di letteratura. Vedremo se riuscirò a mantenere questo proposito.
E quale modo migliore per farlo che produrmi in uno spericolato esercizio, nientemeno che nella nobile arte della stroncatura? E quale autore più adatto allo scopo del popolare Alessandro Baricco, che piace alle mamme e anche alle figlie?
Premetto che, in generale, il personaggio non mi dispiace, per quanto spesso saccente e autoreferenziale più del lecito. Ha avuto il merito di far sì che la televisione italiana si occupasse di letteratura, il che non è poco se si pensa al deprimente panorama attuale della tv generalista.
Ma 'Novecento' proprio non riesco a mandarlo giù, è un mattone davvero indigesto. E dire che ho avuto il coraggio di vederne anche la versione teatrale e quella cinematografica. Tutt'e tre, compresa quella cartacea, soffrono dello stesso male, o meglio inducono nel lettore-spettatore la medesima sofferenza: sono insopportabilmente pallosi.
Partiamo dal libro. “Non era una di quelle persone di cui ti chiedi chissà se è felice quello. Lui era Novecento e basta. Non ti veniva da pensare che c’entrasse qualcosa con la felicità o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto non contava.” Mi sembra che questa citazione dimostri adeguatamente l'atmosfera da luogo comune che pervade il libro. Abbiamo un protagonista con un nome stupido. E' un soprannome, d'accordo, il che è ancora peggio. E' un personaggio stucchevole come il linguaggio da 'buona letteratura anticonformista' che lo descrive, caratteristica già più che sufficiente a renderlo inutile, a voler essere buoni. So per esperienza diretta che non è facile scrivere un buon libro, con delle idee e un linguaggio adatto a farle risaltare. Ma credo che il Lettore abbia il diritto di pretendere dall'Autore, e l'Autore da se stesso, di avere a che fare con un testo che valga la pena di essere letto. So anche che è abbastanza raro che questo accada in Italia con autori che non si chiamino Calvino o, tra i viventi, Arbasino (certo, si fosse chiamato Baricchino, forse...).
Passiamo al testo teatrale. Un monologo, con uno straccio bianco a fare da schermo, che riversa sul pubblico l'adeguata dose di banalità dall'apparenza intelligente. Pallosissimo, appunto.
Infine la versione cinematografica, intitolata “La leggenda del pianista sull’oceano”, diretta da un regista ampiamente sopravvalutato come Tornatore, che spreca un attore di talento come Tim Roth per fargli incarnare una specie di babbeo che forse, chissà, potrebbe anche essere una specie di genio. Inutile dire che non sono stato abbastanza stoico da portare a termine la visione.


In omaggio accludo qui sotto il link a un articolo veramente ben scritto da Baricco, in polemica con Pietro Citati e Giulio Ferroni a proposito, pensate un pò, delle stroncature:


(la foto di Baricco è tratta dallo stesso articolo apparso su Repubblica)